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Mittente |
Aretino Pietro |
Destinatario |
Dolce Lodovico |
Data |
25/6/1537 |
Tipo data |
effettiva |
Luogo di partenza |
Venezia |
Luogo di arrivo |
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Incipit |
Andate pure per le vie che al vostro studio mostra la natura |
Contenuto e note |
[Lettera sull'imitazione e sul furto, definita da Procaccioli "manifesto di poetica"] Pietro Aretino esorta Lodovico Dolce [ma nella prima edizione del primo libro di lettere di Aretino, 1538, la lettera era diretta a Niccolò Franco] a seguire i suoi studi, dicendogli di non curarsi di chi gli ruba un po' del prodotto del suo ingegno, perché quelli da dannare sono gli imitatori. I coltivatori sgridano quelli che calpestano le loro erbe, e non quelli che le colgono senza curarsi di nascondersi; nello stesso modo sgridano quelli che per prendere un frutto rompono il ramo piuttosto che quelli che ne prendono un po', danneggiandogli gli affari. Afferma essere più ingegnoso quel ladro che rubato un vestito lo indossa trasformato al punto tale che il vero padrone non lo possa riconoscere, piuttosto che quello che si fa beccare e punire. Qualche giorno prima Dolce ha sicuramente sentito del dialogo, letto da "il Grazia" [Nicolò Grassi], di Sperone [Speroni], riferito da Fortunio [Spira], il quale afferma che sembrava fosse scritto da Platone, tanto lo imitava; per Aretino questo succede perché [Speroni] fa "suoi i passi de i quali si è servito". Per Aretino la stessa cosa succede ad un bambino al quale viene insegnato tutto dalla balia: una volta svezzato fa suoi quei comportamenti imparati, come fossero nati con lui; "si fa tale, quale è chi ci vive", un po' come gli uccellini imparano a volare dai genitori. È così che, per Aretino, deve fare chi vuole usare il materiale di un altro poeta: usare i modi di scrivere altrui ma rielaborati, perché leggere in un libro parole desuete sarebbe come vedere in piazza un cavaliere con una veste senza maniche piena di lustrini e il cappello appiattito; abiti che in altri tempi appartennero al Duca [di Ferrara] Borso [d'Este; 1413-1471] e a Bartolomeo Colleoni [1395-1475]. I colori non hanno onore se usati per opere deludenti, ma hanno gloria nei tratti di Michelangelo, che ha "messo in tanto travaglio" l'arte e la natura tanto che Aretino non sa dire se sono sue maestre o discepole. Un buon pittore non è dato da come rende bene un tessuto o una fibbia, ma deve cimentarsi nelle figure umane, come disse Giovanni [Ricamatore] da Udine, come diceva a chi estasiato si stupiva delle sue decorazioni "ne la loggia di Leone" [Logge Vaticane] e "ne la vigna di Clemente" [Villa Madama]. Aretino afferma anche che Petrarca e Boccaccio sono imitati da chi esprime i propri concetti con la stessa leggiadria e dolcezza con cui i due autori si esprimevano, e non copiandoli in versi interi. Se proprio si prende da un altro autore, bisognerebbe fare come Virgilio, "che svaligiò Omero", e [Jacopo] Sannazzaro che lo fece con Virgilio, ma entrambi in modo tale che hanno "avanzato ne l'usura", così da essere perdonati. Aretino è convinto che la poesia sia un fatto naturale, che sta "nel furor proprio", senza il quale la poesia è come un campanile senza campane; chi vuole comporre senza capacità innate è solo un sugo freddo. Aggiunge per spiegarsi meglio che gli alchimisti, per quanto ci provino, non riescono a creare oro, mentre la natura lo partorisce puro senza difficoltà; cita un pittore saggio, che quando gli venne chiesto chi imitava rispose che traeva esempio dal vivo e dal vero: così fa anche Aretino quando scrive. È la natura, della quale è segretario, che gli detta cosa scrivere, e la patria gli scioglie la lingua quando c'è da parlare contro "chiacchiere forestieri". Aretino invita Dolce a non fermarsi alla pelle [cioè alla superficie], ma di scendere ai nervi, quando scrive, per dare un senso alle sue opere, lasciando i paroloni a chi si guadagna da vivere "con ingegno di malandrino, e non di dotto". Aretino quindi al massimo imita se stesso perché la natura è un'ottima compagna, mentre paragona l'arte ad una piattola; invita quindi Dolce ad essere uno scultore dei sensi, e non un miniatore di vocaboli. |
Fonte o bibliografia |
Lodovico Dolce, Lettere, a cura di Paolo Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2015, pp. 171-174 |
Compilatore |
Chiarolini Marco |
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