Mittente Tasso Torquato Destinatario Boncompagni Giacomo
Data 17/5/1580 Tipo data effettiva
Luogo di partenza Ospedale di Sant'Anna (Ferrara) Luogo di arrivo Roma
Incipit Sarà dunque vero che i duo Soli sensibili, che del gran Sole intellegibile
Contenuto e note Torquato Tasso consegna a Giacomo Boncompagni alcune sue considerazioni. Si domanda se sia possibile che "i duo Soli sensibili", il papa [Gregorio XIII, Ugo Buoncompagni] e l'imperatore [Rodolfo II d'Asburgo], sembrino essere accomunati dall'intenzione di impedirgli di vivere serenamente e che, sebbene siano noti per la loro clemenza, con cui uno è riuscito a domare la Germania meglio di quanto sia riuscito a fare Carlo V, e l'altro può arricchire gli uomini diffondendo le verità divine, si pieghino di fronte al "rigore" del cardinale [Ferdinando I] de' Medici e si mostrino, invece, insensibili alle sue preghiere. Ipotizza che queste non siano degne di tanto importante attenzione, ma spera che possano giungere, almeno, alle orecchie del duca di Ferrara [Alfonso II d'Este]: a questo scopo si appella direttamente a Dio. Si augura di poter ottenere vantaggi dalla sua scelta di lodare il destinatario con i suoi versi, nello stesso modo in cui Bernardo Tasso era solito lodare il principe di Salerno [Ferrante Sanseverino]: inizierà da questo punto in poi a rivolgersi a lui col "maturo stile" che gli si addice. Lo prega di tenere in debito conto ogni cosa che scriverà, in quanto nipote del papa [Gregorio XIII, Ugo Buoncompagni], suddito del re [di Spagna, Filippo II d’Asburgo (Felipe II de España)] e dell'imperatore [Rodolfo II d’Asburgo] e servitore del duca di Ferrara [Alfonso II d'Este]. È certo che quest’ultimo lo libererà dalla sua condizione di miseria non appena conoscerà la verità, al momento nascosta in un luogo se possibile più cupo del "profondo di Democrito" e che lui è intenzionato a svelare attraverso il "pianto di Eraclito". Si dice convinto che la paternità della verità spetti a Dio, non al tempo, e spera che il destinatario, in quanto suo vicario, voglia portarla alla luce. A fronte di questa richiesta, si sente in dovere di raccontare la verità di ciò che ha detto all'Inquisizione e di ciò che ha scritto all'imperatore [Rodolfo II d’Asburgo]. Vuole dimostrare l'insussistenza di una contraddizione, quella che riguarda l'aver confessato all'inquisitore del Santo Uffizio di Bologna di avere particolari convinzioni in materia di fede, ma non inclinazioni eretiche, e di aver scritto all'imperatore l'esatto contrario. Questo potrebbe essere giustificato semplicemente con la brevità dell'incontro e la negligenza dell'inquisitore, ma non basta: ha intenzione di dare prova di come si possano condividere alcune idee eretiche senza essere "luterano o giudeo di fede" e lo fa attraverso una spiegazione di tipo argomentativo. Differenzia i concetti di "materia" e "forma" della fede: i suoi dubbi non avevano coinvolto il primo, che riguarda "l'opinioni e le conclusioni", bensì il secondo, che riguarda "le ragioni e i mezzi co’ quali queste opinioni provate si fermino ne l’animo", e non in relazione a ciò che si poteva leggere nel vecchio e nell'antico Testamento, ma a ciò che era supposto da alcuni filosofi, tra cui Aristotele. Scrivendo all'imperatore di aver "ebraizzato", inoltre, non aveva fatto altro che utilizzare un artificio poetico e oratorio piuttosto comune. Racconta di come il comportamento della Chiesa nei suoi confronti, da “madrigna” più che da madre, lo avesse indotto a cercare il favore dell’imperatore e degli “Elettori". Aveva tentato di rendersi bene accetto presso di loro con la scelta di tacere i motivi che lo avevano allontanato dalla Chiesa sebbene non volesse, scelta che riteneva produttiva per sé e per loro e priva di conseguenze morali. Aveva pensato che ad accusarlo di eresia fossero stati Luca Scalabrini (Scalabrino) e Ascanio Giraldini, ma aveva evitato di impegnarsi in una difesa efficace di se stesso per non offendere il cardinale [Luigi] d’Este, al quale era molto cara la reputazione di uno dei due e nei confronti del quale, nonostante le “pazzie” successivamente commesse, mantiene una profonda riverenza. Tenta di spiegare la causa di quelle “pazzie”, raccontando della sua devozione all’imperatore [Rodolfo II d’Asburgo], al re [di Spagna, Filippo II d’Asburgo, *** ], al re di Francia [Enrico III di Valois] e al cardinale [Luigi] d’Este, perché figlio di Ercole [II d’Este] oltre che per suoi propri meriti, e di come gli fosse parso strano che il re [di Spagna, Filippo II d’Asburgo***], molto cattolico, e [Luigi] d’Este, cardinale, avessero tentato di allontanarlo dalla fede, cosa che poteva considerarsi una sua “imaginazione”, ma era davvero molto verosimile. Racconta del suo arrivo a Ferrara e dell’accoglienza di [Giovan Gerolamo] Albani, dai consigli del quale aveva compreso di dover sperare nella protezione del cardinale [Luigi] d’Este più che in quella del duca di Ferrara [Alfonso II d’Este] o di [Ferdinando I] de’ Medici. Accolto dai “dipendenti del cardinale d’Este”, dopo aver fatto notare che nessuna delle promesse dell’Albani veniva rispettata, venne imprigionato nell’Ospedale di Sant’Anna, dove è tuttora trattenuto sulla base della sola autorità del cardinale Luigi d’Este, che non ha in realtà questo diritto. Consiglia al destinatario di chiedere conferma al responsabile dell’Ospedale, Agostino Mosto (Mosti), del trattamento che gli è riservato: si trova lì da quattordici mesi, malato, e gli sono negate le medicine del corpo e dell’anima. Sebbene sia a conoscenza della presenza di un “abbate”, infatti, questo non lo ha mai visitato, né gli ha concesso la comunione o la confessione, e neppure, ritenendolo indegno, la conversione. A fronte di tutto ciò, non può che pensare che il cardinale [Luigi] d’Este voglia allontanarlo dalla fede in Cristo, spinto da alcune ragioni che si sofferma a presentare con un elenco di ipotesi. Si lamenta di non poter godere dei “tesori spirituali” e attraverso un articolato ragionamento di tipo filosofico, che riguarda l’infinita virtù divina e che chiama in causa Aristotele, Alessandro [di Afrodisia, ‘De fato’] e Boezio, dimostra al destinatario quanto poco sia stato in passato e sia nel presente incline agli “errori de gli empi”. Gli chiede, dunque, di intercedere per lui presso il duca di Ferrara [Alfonso II d’Este], poiché è convinto che svelandogli la verità e avanzando la sua richiesta di grazia, quello non esiterà a dare conforto alla sua vita ormai consumata dalla malattia, e di fare lo stesso con “questi qui”, ministri del "cardinale" e del papa [Gregorio XIII, Ugo Buoncompagni].
Fonte o bibliografia Bergamo, Civica Biblioteca 'Angelo Mai', Cassaforte 6 15 (Codice Falconieri), cc. 159r-163r. Le lettere di Torquato Tasso, a cura di C. Guasti, Firenze, Le Monnier, 1852-55, num. 133, II, pp. 80-93.
Compilatore Fantacci Michela
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