Mittente Tasso Torquato Destinatario Ardizio Curzio
Data 28/6/1584 Tipo data congetturale
Luogo di partenza Ferrara Luogo di arrivo Mantova
Incipit Ripensando a quel che ieri scrissi a Vostra Signoria in risposta
Contenuto e note Torquato Tasso chiarisce a Curzio Ardizio il senso di alcuni passi della lettera inviata il giorno prima [datata 27 giugno 1584, n. 290 dell’edizione Guasti, "Una certa mia natural vergogna è cagione c'a gli amici"]: sebbene abbia scritto di essere più incline all’adulazione che alle critiche acerbe, non intende vivere nelle corti come “falso filosofo” o “adulatore”, perché un’inclinazione non è cosa vincolante. Inoltre, desidera spiegare meglio anche i passi in cui sembrava non distinguere la “magnanimità” dalla “cupidità di gloria”, la “fortezza” dal “disprezzo de’ pericoli” e la “liberalità” dalla “prodigalità”: chiarisce che solo i primi sono pregi, e vanno nettamente differenziati dai secondi, che risultano “vizi”. Precisa poi che riguardo la virtù e il vizio si può ragionare sia in persone “circoscritte da’ particolari”, come Alessandro, Temistocle o Catone, sia in quelle “non circoscritte da’ particolari”, come un generico re, un capitano o un padre di famiglia. Nel primo gruppo esistono persone “vere” o “finte” [cioè frutto di invenzione], ma i particolari di cui sono “circoscritte” possono essere veri solo per le persone reali; nel secondo, invece, non si può parlare di verità o finzione, né di particolari che definiscono i componenti del gruppo [essendo entità generiche]. L’oratore, lo storico, e, a volte, il filosofo ragionano della virtù e del vizio delle persone vere, “circoscritte” da particolari anch’essi reali; i poeti, invece, possono riflettere su personaggi frutto d’invenzione, come è Camilla [personaggio dell’ 'Eneide'], o arricchire di caratteristiche fittizie quelli storici, quali sono Achille o Enea. Chiarisce poi che un filosofo di corte dovrebbe meditare sulle entità generiche, senza darvi “per padre più Filippo o Alessandro” ma distinguendo bene i vizi dalle virtù. Parlando di persone concrete, infatti, non potrebbe essere certo de “l’obietto” che queste si propongono, perché può essere dissimulato; inoltre, a un filosofo cortigiano non si addicono né le “adulazioni” né le “maldicenze”. Un oratore di un principato, invece, dovrebbe riconoscere che le “invettive” sono proprie solo degli uomini delle “republiche”, che giustamente Cicerone paragona ai “generosi cani”; molto più adatte sarebbero le orazioni di lode, che servono a indurre gli “animi generosi” a perseguire la virtù. Anche i giovani potrebbero beneficiarne, come fanno i “destrieri” di cui scrive Virgilio, che desiderano più di ogni altra cosa le carezze del padrone [cita dalle ‘Georgiche’, III, vv. 185-186]. Per evitare ogni “sospetto di lusinghiero”, l’oratore cortigiano dovrebbe preferibilmente ragionare della “virtù de’ morti”, oppure dei loro vizi, in quanto anche la paura “de l’infamia” ha potere educativo; tuttavia, la virtù si dovrebbe cercare senza lo stimolo di premio o pena “esterna”. Precisa poi che anche gli storici possono scrivere di meriti e vizi, ma con una distinzione: quelli che si propongono di narrare “le azioni” non dovrebbero fare digressioni troppo ampie; al contrario, gli storici della “vita de gli uomini” non devono evitarle. Rimarcando il potere edificante della lode, Tasso sostiene che dei principi di cui ha scritto il giorno prima [Guidobaldo da Montefeltro, Francesco Maria e Guidobaldo Della Rovere, Ercole I, Ercole II, e Alfonso I d’Este] si può “molto più dir con lode che con basimo”; e ciò vale altrettanto per i morti, come dimostra di credere anche Dante [Alighieri], che in più “luoghi” sostiene che i “dannati” desiderano essere ricordati [cita tre versi della ‘Commedia’: 'Inferno', VI, 89; XIII, 55; XXXI, 125]. I principi di cui gli ha parlato, però, possono essere collocati almeno nel purgatorio, e sono quindi ancora più adatti ad essere elogiati e a mostrare ai posteri la “verità” delle loro azioni. E anche se oratori e poeti condiscono questa verità di vari ornamenti, quasi a farla divenire “menzogna”, essi vanno ascoltati “senza colpa”, perché recano enorme beneficio; del resto, ciò raccomandava anche Platone nei dialoghi ‘La Repubblica’ e ‘Le Leggi’, o Aristotele, quando spiegava che i poeti, anche mentendo, hanno del “filosofico” ('Poetica', 1451b). Conclude affermando che all’Ardizio non servono tali lezioni: egli dipingerebbe il principe di Mantova in modo veritiero, ma “Achille o Teseo” in maniera artistica; ma di tutto ciò vuole scrivere meglio in “luogo proprio” [probabilmente progetta il dialogo ‘Il Malpiglio, overo de la Corte’]. Infine, difende il suo ruolo di “cortegiano e scrittore” e saluta il principe [Vincenzo Gonzaga], la corte tutta e Marcello Donati, pregando quest’ultimo di ricordarsi del “negozio” e di spedirgli qualche medicinale.
Fonte o bibliografia Le lettere di Torquato Tasso, a cura di C. Guasti, Firenze, Le Monnier, 1852-55, num. 291, II, pp. 283-288. Delle Lettere Familiari del Sig. Torquato Tasso, Bergamo, Comino Ventura e Compagni, 1588, libro II, cc. 4v-8r.
Compilatore Liguori Marianna
vai al documento
Torna all’elenco dei risultati