Mittente Pallavicino Sforza Destinatario Malvezzi Virgilio
Data 27/10/1646 Tipo data effettiva
Luogo di partenza Roma Luogo di arrivo [Castel Guelfo]
Incipit Più mi glorio io nell’intendere che i lavori della mia penna
Contenuto e note Gli scritti del Pallavicino tengono a veglia notturna il Malvezzi intento a leggerli. E, apprendendo ciò, il Pallavicino se ne gloria più di quanto non si sarebbe gloriato Milziade se avesse previsto che le sue imprese avrebbero tenuto insonne Temistocle per l’ammirazione che questi nutriva verso di esse [cfr. Plut., Them., 3,4]. Dopo varie sviscerate lodi nei confronti dello zio, il Pallavicino gli risponde in merito ad alcune perplessità manifestategli dal Malvezzi dopo quelle letture: Pallavicino intende cioè dar conto di sue proprie interpretazioni di due luoghi di Aristotele [Met. 995a; e Polit. 1281b] sui quali ha discorso nella sua operetta [‘Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo…’, Roma, eredi del Corbelletti, 1646’]: interpretazioni che il Malvezzi sembra non condividere. Del primo luogo aristotelico [il cui testo originale dice, in sostanza, che l’estrema puntualità, esattezza, di un docente nell’esporre può riuscire stucchevole, e viene paragonata a quell’eccessivo puntiglio normativo che, se presente nei contratti, potrebbe renderli troppo coercitivi], il Pallavicino ha dato un’interpretazione conforme a quella fornita da Averroè e dal Bessarione i quali hanno tradotto la parola greca del testo aristotelico [tò ????ß??] con ‘certezza’. E lo stesso Pallavicino riconosce che tutt’altra interpretazione ne deriva se, invece che con ‘certezza’, si traduce quel sostantivo con ‘esattezza’, ‘puntualità’, come fa, ad es., [Pedro da] Fonseca [‘Commentarium Petri Fonsecae … in libros Metaphysicorum Aristotelis …’, Lione, Giunti, 1597 (1580), p. 361]. Giustifica ad ogni modo la sua propria interpretazione dapprima ricordando che egli, già nel suo scritto ‘Del bene’ [Roma, Corbelletti, 1644, libro IV, capp. XIV e XV], ha avuto che ridire di Aristotele quando questi ritiene le scienze speculative superiori a quelle morali, e ha giudicato la dottrina del filosofo “difettuosa negli insegnamenti dell’etica” [libro II, capp. V e IX]. Rincara quindi la dose soggiungendo che “più conosce il merito di Aristotele chi talora il rifiuta, che chi per tutto lo segue”. Del resto non c’è da meravigliarsi se il filosofo, “in tanta varietà di speculazioni sublimi, difficilissime, oscurissime, abbia talora mostrato che al suo intelletto non era congiunta la verità per essenza come al divino”: germoglia infatti minor quantità d’erbacce negli orti di un certosino che negli orti di Aranjuez e di Fontainebleau, e si trovano più errori negli annali di [Cesare] Baronio che “nella relazion d’una festa”. Ma, indubbiamente, Aristotele fu sommo pensatore che, a confronto d’altri filosofi che pure pronunciarono proposizioni particolari, rivelò, nel suo caso, addirittura degli assiomi: ed in questo seppe ben imitarlo San Tommaso. Segue dunque una lunga disquisizione con la quale Pallavicino giustifica il suo accoglimento della parola ‘certezza’ - piuttosto che ‘esattezza’ - l’interno di quella proposizione aristotelica; donde, sempre in riferimento al paragone dei contratti, ne deriverebbe un significato, secondo il Pallavicino, del genere: i contratti troppo pressanti fanno sì che chi li subisce si lamenti che la ‘certezza della ragione’ lo costringa ad approvare una sentenza anche suo malgrado. Il Pallavicino s’appoggia dunque, nella sua speculazione artificiosa, sull’opposizione dei termini ‘certezza’ e ‘probabilità’. E riferisce, a proposito, di non accettare l’opinione di Durando [di San Porziano, ‘In Sententias theologicas Petri Lombardi commentariorum libri quatuor’, Lione, 1556, libro II, d. XXIV; q. III] il quale “costituisce la libertà o solo o primieramente nell’intelletto”, perché quest’ultimo in alcuni casi – ad es., nell’episodio del “paladino dell’Ariosto” [Orlando, quando questi nega l’evidenza degli incontri tra Angelica e Medoro registrati nelle iscrizioni della grotta in cui erano avvenuti (‘Orlando furioso’, XXIII, 103, 111, 114)] - rimane “immobilmente inchiodato dalla robustezza della ragione”. Pallavicino distingue poi tra una ‘necessità di natura’, ineluttabile, e una ‘necessità di violenza’ (quest’ultima definita da Aristotele “nel terzo delle Morali” [cioè ‘Etica Nicomachea’ III, 1, 1110a/b]) alla quale la nostra inclinazione è contraria: e questa necessità, per l’appunto, è quella che deriverebbe dai contratti. E conclude, il Pallavicino, affermando che Aristotele, in quel passo, intende “non che ad alcuni dispiaccia di posseder la certezza, ma di riceverla”, mentre “l’argomento probabile lascia in libertà della lor cortesia il consentire o il ripugnare alla speculazione dell’autore”. Il Pallavicino passa dunque a considerare l’altro luogo di Aristotele sopra accennato [quello di Pol. 1281b] nel quale il filosofo greco, cercando “qual forma di reggimento sia la migliore”, dice, tra l’altro, che “l’uomo saggio è diverso dall’ignorante come l’uomo bello dal non bello e l’uomo ben dipinto dal vero”; e così pure che “il sapiente ha unite nel suo intelletto quelle cognizioni che stan divise fra una schiera di animi dozzinali. Onde molti di questi, se comporranno un senato, avranno tanta sapienza quanta è posseduta da pochi saggi”. Aristotele s’appoggia, a dimostrare il suo assunto, a diverse similitudini, su alcune delle quali il Pallavicino ha già riferito nel suo libro dato in lettura al Malvezzi. Quest’ultimo le ha lette e ritenute false “insieme coll’applicazione”, e ne ha chiesto perciò chiarimenti al Pallavicino. Questi dunque riprende l’argomento con nuove argomentazioni e in parte confutando quelle similitudini.
Fonte o bibliografia Clizia Carminati, Il carteggio tra Virgilio Malvezzi e Sforza Pallavicino, “Studi secenteschi”, XLI, 2000, pp. 378-393 (lettera 11)
Compilatore Giulietti Renato
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