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Mittente |
Aretino Pietro |
Destinatario |
Dolce Lodovico |
Data |
7/10/1539 |
Tipo data |
effettiva |
Luogo di partenza |
Venezia |
Luogo di arrivo |
[Venezia] |
Incipit |
Ridetevi compare mentre udite non in che modo il Franco |
Contenuto e note |
Pietro Aretino scrive a Lodovico Dolce lamentandosi di [Niccolò] Franco. Lo reputa incapace di far danno alle persone dabbene e si comporta come un cane scacciato e odiato da tutti, che abbaia per far sapere che sta morendo di fame. Aretino afferma di aver visto tante persone piene di pessime qualità, ma mai nessuno come Franco; è un uomo superbo, che si tesse da solo le lodi, credendosi un “gran Poeta”, esaltandosi e premiandosi per conto suo. Aretino è contento della ferita che Ambrogio [Gianambrogio degli Eusebi] ha inflitto a Franco con un pugnale, perché non si può avere carità di lui, sarebbe un insulto alle “opere de la misericordia”, delle quali tra l’altro è indegno; non sa dove potrà mai trovare un affetto come quello che gli ha dato, e ora non si capacita di come possa averlo accettato come collaboratore. Racconta poi a Dolce che una volta arrivato in città Franco si era accasato da [Quinto] Gherardi, ma dato che c’era “più abondanzia d’aria che di pane”, non potendo trasformarsi in camaleonte [una tradizione registrata in Plinio, ‘Naturalis Historia’, 8 51, voleva che il camaleonte si nutrisse d’aria], chiese a Gherardi di convincere Aretino ad accettarlo come lavoratore. Alla sua tavola si avventò come ora si sta avventando alla fama: tanto veementemente da far sembrare la prodigalità di Aretino avarizia, facendogli così già capire che tipo di persona fosse quel “faciebat et iocabatur Francus” [cita la chiusa de: Niccolò Franco, ‘Tempio d’Amore’, Venezia, Marcolini, 1536]. Non sa se sia stata la sua cattiva sorte o la fortuna di Franco a far sì che restasse oltre la cena, fatto sta che lo ospitò offrendogli molte comodità. Era magro e malvestito, tanto che una sua serva poté dire che si era portato in casa un furfante; da lì a un mese lo vestì come un uomo per bene. Una volta capito che per avere altro doveva darsi da fare, Franco compose dei sonetti; Aretino, una volta letti, disse che quattro o cinque potevano essere buoni, Franco allora si alterò dicendo che erano tutti perfetti, tanto che nemmeno Petrarca poteva capire quanto erano stupendi. Sentendo questo, Aretino restò senza parole, perché è meglio tollerare un’offesa, anche se ricevuta nella propria casa, piuttosto che vendicarsene. Dopodiché oltre ad aiutare Aretino con le lettere iniziò ad emularle, tanto da comporre il libro che rovinò, non avendo venduto, “il Gradana Francese” [Antoine Gardane], che fece l’errore di prestargli i soldi per farlo stampare [allude all'edizione delle lettere di Franco, uscite nello stesso 1538 del primo libro di lettere di Aretino]. Aretino ammette di essere inferiore a Franco sotto vari aspetti, ma non nell’umanità, perché egli l’ha tradito, nonostante l’abbia menzionato nelle sue opere; ringrazia Dolce per aver detto che le lodi che attribuì a Franco sono nate dalla sua bontà, non sono un errore di giudizio. Lodare chi gli sta vicino è una caratteristica di Aretino, anche se si pente di averlo fatto con Franco; però ha molta pazienza e liberalità, simili alla vastità del deserto, così aspetta di punirlo con la cortesia, dopo averlo resuscitato, quando l’ha ospitato, con l’elemosina. Per Aretino Franco vive con “due once di pasta il giorno”: aveva quindi ragione Lione (Leone) [Orsini] nel dire che non premiava i pessimi scritti ma soccorreva un mendicante, nel finanziarlo [allude a: Niccolò Franco, ‘Dialogi piacevoli’, Venezia, Giovanni Giolito, 1539, con dedica a Orsini]. La governante dell’ambasciatore di Mantova [Benedetto Agnello], sentendolo parlare male di Aretino lo prese per il colletto della camicia che lo stesso Aretino gli aveva dato, suggerendogli di togliersela quando parla male di lui. Franco è anche solito pavoneggiarsi nelle sue opere, tanto nei Dialoghi [dove a Sannio, portavoce dell’autore nell’opera, viene assegnata la conoscenza dei “Secreti che ci asconde il Cielo” e l’invenzione della scienza] quanto nel commento della Priapea [Niccolò Franco, ‘La Priapea’, Venezia, Gabriele Giolito de Ferrari, 1541]. Franco non va d’accordo né coi cattivi né coi buoni. Tiziano [Vecellio] dice che, quando lo incontra, quel disgraziato si nasconde la berretta piuttosto che usarla per fare un saluto, nonostante Tiziano l’abbia salvato dal digiuno, a spese di [Benedetto?] Agnello, che ora gli è nemico per i benefici ricevuti, a torto, da Franco. Si è talmente montato la testa che ha avuto da ridire con [Jacopo] Sansovino, al quale ha chiesto che cosa penserebbe se il Re gli concedesse una pensione doppia di quella concessa all’Aretino dall’Imperatore; Sansovino ha risposto che finché non la vedrà si farà beffe di lui. Riferendosi a [Sebastiano] Serlio, maestro architetto, disse che l’essere stato nominato nei suoi libri non doveva intaccare la sua fama. Una volta viste stampate le sue opere disse che a Venezia a [Francesco] Marcolini aveva tolto il pane, non essendo il suo editore, e ad Aretino il credito, tanto erano migliori le sue opere; Marcolini rispose che se non fosse stato per il suo pane e per il credito di Aretino ora Franco sarebbe un semplice garzone. Ha anche iniziato a rivaleggiare con Fortunio [Spira] in eloquenza e dottrina, facendo la figura di “matto spacciato”. Quando poi la famiglia di Giangiovacchino [Passano; genovese, ambasciatore ad interim a Venezia 1538-1359] lo ha castigato per le finte lettere indirizzate al Re di Francia, ha urlato come un animale che ci si toglie di dosso a calci. [Lorenzo] Venier, con altri, una volta sentito che il Franco li aveva insultati, lo prese a staffilate con la fibbia della cintura alle quattro di notte. [Cristoforo] Stampone [tipografo] ad uno scolaro che gli chiese chi fosse a scrivere “pistolacce da banche” rispose che era una cornacchia, la quale voleva imitare Aretino, ma non ne era in grado; [Giovambattista] Dragoncino, saputo che Franco aveva offeso la sua opera dopo averla imitata [‘Amoroso ardore del Dragoncino da Fano. Etiam la prodica vita di Lippotopo’, Venezia, Bernardino di Viano, 1536], disse che l’avrebbe picchiato come fece Giulia Riccia quando scoprì che Franco metteva in giro la voce che andava a letto con lei, se non fosse che si vergognerebbe a immischiarsi con un così pessimo personaggio. Francesco Alunno [del Bailo] può testimoniare quante bastonate ha preso quando Franco è andato da lui a curarsi, avendogli qualcuno rotto le braccia. Conclude dicendo che “le penne di Pasquino” dovrebbero cavargli gli occhi dato che usa così tanto inchiostro per parlare di un “sì vil verme”. |
Fonte o bibliografia |
Lodovico Dolce, Lettere, a cura di Paolo Procaccioli, Manziana, Vecchiarelli, 2015, pp. 193-198 |
Compilatore |
Chiarolini Marco |
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